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LA RIVINCITA DELLA PUBBLICITÀ TELEVISIVA

Meno pubblicità, pagata meglio

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Non ci sono più i  numeri di una volta.

La capacità di aggregare grandi masse di audience, propria della tv analogica in cui pochi canali si contendevano l’attenzione di un gran numero di spettatori, si è ridotta notevolmente con l’aumento delle opzioni a disposizione degli utenti: le pay tv, il digitale, l’on demand, lo streaming; tutto concorre alla dispersione delle audience su una gran quantità di piattaforme diverse (che abilitano, a loro volta, modalità di fruizione diverse rispetto al passato).

Dal punto di vista del mercato pubblicitario, il nuovo status quo ha generato una serie di squilibri, dovuti principalmente alla frammentazione delle audience ed alla loro maggiore imprevedibilità nelle scelte di fruizione.

Infatti, Il valore delle inserzioni pubblicitarie è stabilito dalla misurazione delle cosiddette “predicted audience”, ovvero del pubblico atteso per un determinato programma. Queste previsioni vengono poi testate in fase di misurazione (in Italia affidata all’Auditel) che permette di ottenere il dato sugli ascolti analizzando un campione rappresentativo della popolazione (measured audience).

In questo modello economico, se il comportamento dell’ audience, dato l’aumento delle opzioni a disposizione, si fa più imprevedibile, sarà più difficile fornire agli inserzionisti pubblicitari una stima precisa della “predicted audience”. Inoltre, se l’audience tende a disperdersi su più piattaforme, la capacità di aggregare grandi numeri da parte della tv “tradizionale” ne risentirà drasticamente impattando quindi anche a posteriori sulla “measured audience”.

In altre parole si innesca un circolo vizioso che fa tendere al ribasso i prezzi degli spazi pubblicitari.

Eppure le cose non stanno andando in questa direzione, almeno osservando i ricavi pubblicitari  dell’industria televisiva americana e inglese nell’ autunno passato. I ratings sono scesi, ma i ricavi si sono alzati.

Ci sono almeno tre fattori che determinano questo paradosso, come spiegato in modo esemplare da Alan Wolk in un articolo di presentazione al Changing Media Summit 2016 uscito su “The Guardian”.

Il primo. I broadcaster, sulla scia dei più importanti servizi in streaming (su tutti Netflix), stanno limitando l’affollamento pubblicitario: questo significa che l’offerta di spazi pubblicitari diminuisce. In pratica, lo stesso numero di inserzionisti si contende un numero minore di slot pubblicitari, riportando in alto i prezzi.

Secondo fattore. La possibilità di profilare in modo più preciso l’audience a cui indirizzare il messaggio pubblicitario, grazie alle pubblicità personalizzabili. Una delle tecnologie più importanti in questo ambito è stata sviluppata da Sky con AdSmart: il sistema, basandosi sui dati personali degli utenti inseriti in fase di sottoscrizione, permette di confezionare ad personam le comunicazioni pubblicitarie. Anche in questo caso, i prezzi tendono al rialzo perché gli inserzionisti, pur raggiungendo un numero minore di persone, possono rivolgersi ad un’audience altamente qualificata.

Terzo fattore. La capacità di andare oltre il dato quantitativo degli ascolti, grazie alla maggiore tracciabilità degli utenti. Infatti, man mano che la fruizione dei contenuti si sposta verso i servizi in streaming e su internet, gli utenti lasciano una quantità sempre maggiore di dati che ne delineano il profilo socio-demografico, i gusti, le preferenze. Senza contare tutte le volte che l’autenticazione è effettuata tramite il proprio profilo social, con il trasferimento automatico di informazioni preziose per le quali, anche in questo caso, gli inserzionisti sono disposti a pagare di più.

Tutti gli aspetti fin qui analizzati, portano alla definizione di un quadro ben delineato che potrebbe rappresentare il trend del mercato pubblicitario  per i prossimi anni: meno pubblicità, più personalizzata, per la quale gli inserzionisti sono disposti a pagare di più.

È un gioco nel quale tutti vincono: gli utenti vedono scendere i livelli di affollamento pubblicitario, i fornitori di contenuti possono adeguarsi ai modelli dei servizi in streaming diminuendo la pubblicità ma facendosela pagare meglio, gli inserzionisti  hanno più probabilità di raggiungere chi effettivamente è interessato alle loro comunicazioni rivolgendosi a micro-segmenti di audience altamente profilata.

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